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ANATOMIA DELLA CATTURA DI UN "BOSS" : LUCIANO LEGGIO

 

Corleone è adagiato in una gola sassosa, tra monti di pietra arida e rende gli oggetti avari di ombra. In inverno c’è il vento, un vento da film del terrore, che ulula tra i monti e finisce per smussare alche la roccia.

E di straordinario, questo paese ha la tradizione ormai solida e rinomata di più importante vivaio di mafiosi della Sicilia contemporanea. E’ da questo ambiente, in cui le circostanze particolarmente favorevoli di crescita hanno provocato una severissima selezione della tempra criminale, che è sorto l’astro sanguinario di Luciano Leggio.

La storia di quest’uomo, più che mai sconcertante e troppo complesso per potere essere considerata pienamente in questo scritto. Sono comunque sufficienti pochi dati per mettere in luce, almeno nelle sue caratteristiche essenziali, la sua statura criminale.

Capo “cosca mafiosa” appena ventenne, a 34 anni, nel 1959 si guadagnò il comando supremo dell’organizzazione mafiosa con la spettacolare uccisione del Dr. Navarra, suo precedente capo e comandante generale mafioso. Ha totalizzato 16 anni consecutivi di latitanza, raggranellando un patrimonio che si computa a livello di miliardi e un reddito fisso incalcolabile: da un cespite che potremo definire secondario – contrabbando, bigliardini elettrici e gru elettriche di circa un milione e mezzo giornaliere. E’ considerato, sul piano criminale alla stessa stregua di Salvatore Giuliano, sanguinario, e la sua particolare abilità nell’usare la pistola, qui in Sicilia è ormai leggendaria.

Dopo 16 anni, le possibilità degli organi inquirenti per la sua cattura, erano ridotte al minimo. In un periodo così lungo di vita sotterranea, al riparo da qualsiasi forma di censura della Giustizia, ci si consolida la posizione e si costruisce un dedalo di scappatoie, come la talpa sottoterra, che rendono pressoché imprendibili.

Inoltre c’era quell’abbondanza di denaro che costituiva un indubbio vantaggio per Leggio. In quei 16 anni aveva controllato e influenzato ogni espressione vitale siciliana. Chi desiderava conoscere il suo viso, se lo doveva costruire con l’aiuto dell’immaginazione: voci apparentemente fondate asserivano che con una operazione di chirurgia plastica aveva completamente mutato i tratti del suo volto.

Gli stessi inquirenti erano scettici nei riguardi di tali ricerche. Sedici anni sono lunghi; se non sono riusciti prima, come sperare di riuscire a carpire ora il successo?

Necessitava una pazienza certosina, confortata da una volontà di ferro. Passavano i mesi con la lentezza delle cose inutili, senza risultati apparentemente apprezzabili.

Poi, un giorno, il Tenente Colonnello Ignazio Milillo, Comandante il Gruppo Esterno Carabinieri di Palermo, sorrise. Ebbe lo steso sorriso che potrebbe avere un chimico che dopo anni di tentativi ed esperimenti trova finalmente la formula per la reazione desiderata.

Dopo la serie che pareva essere infinita di indagini discrete e testarde che sembravano di sciogliersi in un nulla di fatto, finalmente una notizia di un certo fondamento era rimasta nella rete delle indagini del Milillo: Leggio era malato. Era stato ricoverato in una Clinica di Palermo affetto dal morbo di Pott.

E a questo punto che al Gruppo Esterno di Palermo iniziò la seconda parte delle indagini, sempre discrete ma più vigorose ed attive.

Dopo irruzione in due Cliniche, con esito negativo, medici, inservienti, parenti, mafiosi, gente appartenente alla numerosa fauna umana che vive nella scia di soldi della mafia , iniziarono a convenire nell’ufficio del Ten. Col. Milillo. Ci si attaccava a quel brandello di verità, con ostinazione, per raggiungere il successo.

Passarono lunghi giorni di interminabili interrogatori; si analizzava, si sezionava scomponendoli al limite atomico, piccoli fatti apparentemente insignificanti. Si scavava la verità in un passato recente, ma seppellita nei protagonisti da una atavica omertà. Si scordarono gli orari di consuetudine; giorno e notte si continua a setacciare abitazioni e controllare versioni, senza ascoltare la stanchezza che ormai gravava su tutti.

Quando pareva che le indagini fossero ormai irrimediabilmente paralizzate dalla paura dei testimoni, un altro elemento di notizia parve incrinare la muraglia che divideva dalla verità.

Il Leggio, procuratosi la carta di identità di un uomo deceduto tempo addietro a Partinico, si faceva chiamare Gaspare Centineo, con residenza in Partinico. Quest’ultimo paese è tristemente noto nel passato di sangue della Sicilia Occidentale, quale scenario alle gesta della banda di “Turiddu Giuliano”.

Durante la degenza in ospedale era stato più volte visitato ed in precedenza anche ospitato da un ricchissimo commerciante di mobili di Palermo, assolutamente incensurato e rispettabilissimo.

Altri fermi, perquisizioni, interrogatori, confronti a ritmo incessante. Il Ten. Col. Milillo, con gli occhi orlati stanchezza, proseguiva le indagini a denti stretti. L’importanza della operazione mobilitava tutte le forze di tutti gli inquirenti disponibili. Venero adottate sistemi di indagine modernissimi, quali l’inserimento di registratori magnetici sulle linnee telefoniche delle persone sospettate.

Poi successe che le notizie cominciarono a combaciare, come i cocci di un’anfora rotta. L’una notizia si fondeva all’altra ed il disegno cominciava ad apparire, anche se confuso e con zone di vuoto.

Alcuni interrogati fecero certe ammissioni che, non avendo alcun significato da solo, coloravano, completandolo, il mosaico dei fatti. Con questi dati si cominciò ad azzardare le prime supposizioni.

Altri appiattamenti, perquisizioni domiciliari, pedinamenti.

Il fattore determinante che si acquisì durante questa fase di indagini, fu l’addentrarsi nel sottobosco della mafia di Palermo e Provincia.

Con la visuale un po’ schiarita in merito alle persone che erano in relazione di attività periferica con la “cosca” leggiana, si fece un rastrellamento in grande stile nella zona di “Ciaculli” (PA) che vide impegnati circa 250 uomini.

Ivi, se non il ricercato, si trovarono tracce comprovanti il suo soggiorno. Confortati del parziale successo, qualche ora dopo il termine di quel rastrellamento, circa 200 uomini, rappresentanti dei vari Reparti dell’Arma, unitamente ad un drappello di uomini del Commissariato di P.S. di Corleone, retto dal Commissario dr. Angelo Mangano, invitato a far parte del gruppo investigativo nell’ultima fase delle operazioni, al comando del Ten. Col. Milillo, accerchiavano una abitazione in Corleone.

Erano le 21 e 45 del 14 maggio 1964.

Una pallida luna spruzzava d’argento ogni cosa. Vi era un buio vitreo, lucido, impermeabile ai suoni.

Aperta la porta apparvero due donne anziane, tutte di nero vestite, del nero doloroso proprio delle donne in lutto, qui in Sicilia. Si fecero in disparte per cedere il passo all’impeto degli uomini che entravano.

Nella stanza superiore, tutto buio. Alla luce delle torce elettriche, apparve un letto, con un uomo disteso.

L’uomo destato dal rumore, dalle luci, rimase ipnotizzato dalle armi spianate che lo attorniavano. Le sue mani si contrassero stringendo il lenzuolo. Vi fu una frazione di secondo in cui preda e cacciatori si guardarono negli occhi, sopraffatti dall’emozione.

Poi l’uomo ebbe un guizzo negli occhi, riprese il controllo di sé e disse:

“Si, sono io, sono io l’uomo che cercate”.

Lo disse con dignità calma e dosata. La dignità del Capo, del bandito di razza. Era Luciano Leggio.

Il suo viso era molto mutato dall’immagine giovanile della fotografia in possesso delle forze di polizia.

Quell’immagine che gli aveva guadagnato l’appellativo di “faccia d’angelo”. Era ingrassato, la struttura ossea si era allargata, anche in conseguenza del suo male, i tratti del volto appesantiti.

Soltanto negli occhi era rimasto quello stupore gelido e distante che denota fisiologicamente la crudeltà.

Due occhi di taglio allungato e orizzontale, di una fissità impenetrabile.

Ebbe un malinconico sguardo al suo micidiale revolver giacente nel cassetto del comodino, una Smith & Wesson cal. 38, nuovissima, nel mentre il Col. Milillo se ne impossessava sequestrandogliela e mormorò qualcosa a denti stretti: era l’accettazione della sua resa al Col. Milillo al quale volle riconoscere il merito di avergli fatto una caccia assillante e tenace, ma condotta sempre con lealtà ed onore e nell’assoluta osservanza della legge, così come è nel costume dell’Arma dei Carabinieri.

Poi si vestì, sotto lo sguardo delle armi puntate e a tratti sorrideva, con la forza di spirito del genio del crimine.

In fondo, il valore del cacciatore onora la vittima nella cattura.

Più tardi, mentre veniva tradotto su di una autoambulanza nella sede del Gruppo Esterno in Palermo, le massime autorità erano venute a complimentarsi per l’esito brillante conseguito e plotoni di giornalisti, fotografi, cineoperatori anche esteri, stavano infliggendogli domande e lampi di “flash”, il Ten. Col. Milillo, mostrando il revolver della “Primula Rossa”, sorrise ancora. Un sorriso stanco, con occhi ombrati dal sonno perduto